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Miseria e Nobiltà e i liberatori spaghetti di Sciosciammocca

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È inMiseria e nobiltà”, la famosa commedia scritta da Eduardo Scarpetta nel 1887, che l’eterna metafora della condizione umana si associa, attraverso i personaggi e la maschera di Felice Sciosciammocca,  a quei maccheroni fumanti simbolo del tanto desiderato riscatto del popolo napoletano. Emblematico, nel lavoro del grande innovatore del teatro napoletano e capostipite della dinastia dei De Filippo, è quel momento reso ancora più famoso dal film omonimo di Mario Mattoli del 1954 con Totò, in cui un garzone tira fuori da una stufa, che assume i toni di un cilindro magico, una grossa zuppiera di spaghetti al pomodoro. È  proprio  nello stesso istante, infatti,  che lo spaghetto, totem insuperabile di quei settecenteschi napoletani mangiamaccheroni, supera la sua estensione alimentare per  mutarsi in una concezione spirituale capace di andare ben oltre la semplice funzione nutritiva.

Infilati tra le dita delle mani, messi al sicuro nelle tasche e pronti a riempire quelle bocche atavicamente insaziabili, gli spaghetti diventano i protagonisti di un casto baccanale, di un improvvisato e liberatorio ballo,  nonché il miracoloso rimedio contro i terribili effetti di una fame fisica penetrata fin dentro l’anima.  

Giuseppe Giorgio




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